IL RACCONTO DEL CIBO SICILIANO, E NON SOLO secondo quadro
Dove si narra del confine tra mare e terra, della cucina in rosso, del sale, del tonno e del salatume, delle contaminazioni culturali e dell’influenza araba, delle rivisitazioni della cucina tradizionale e della trapanesizzazione, della pasta c’a sarsa e della pasta cull’agghia; ovvero niente si butta e tutto si trasforma
Il territorio trapanese, grossomodo la fascia costiera, che va da Capo San Vito alle foci del fiume Birgi, e poi al Biscione mazarese, ha sempre avuto una gastronomia dove mare e terra si confondono, dove i confini sembrano esserci solo per essere valicati.
Fino a pochissimi anni fa era “normale” che un contadino il sabato sera calasse le reti, pure solo per procacciarsi il pranzo della domenica, così come era altrettanto “normale” che un pescatore coltivasse un orto familiare. Questo ha comportato che si radicasse in questo territorio una maniera di cucinare il pesce in “rosso”, al pomodoro: dai ragù di pesce azzurro, a quelli di polpette di pesce, dai ragù di gronco o murena, ai ragù di seppie o polpi, ai ragù di pesci ripieni, e finanche vongole e cozze sono, o magari erano dalle nostre mamme cucinate in rosso. Nei ragù marinari non si usava il concentrato, ma la passata di pomodoro fresco o in bottiglia, ma per tutto il resto, dal battuto agli ingredienti secondari erano uguali: ad esempio gli ingredienti delle polpette trapanesi di pesce, di carne o di verdure che poi sarebbero state cucinate nella passata di pomodoro erano esattamente gli stessi: pan bagnato, uova, pecorino o caciocavallo grattugiato, aglio, uova, uvetta e pinoli. Queste però non erano ricette quotidiane, erano ricette di festa, perché nel quotidiano la cucina trapanese è tradizionalmente semplice, come un’acqua cheta, pronta però a splendere di luce propria una volta ogni tanto, con favolosi Cuscusu di pisci e Raù di tunnina ammuttunata.
La semplicità della gastronomia trapanese è evidente nelle preparazioni di condimenti per la pasta a base di verdure, quasi esclusivamente fritte: solo nel trapanese è di uso comune condire la pasta con melanzane, cavolfiori, broccoli, zucchine, peperoni, verdure selvatiche o addirittura patate fritte, senza l’aggiunta di un insaccato o di altre proteine, ma soltanto di spezie, erbe aromatiche e formaggi grattugiati. E poi ci sono le onnipresenti, mitiche, quasi sacre Pasta c’a sarsa e Pasta cull’agghia. Della Pasta cull’agghia, e del mortaio senza di cui la Pasta cull’agghia non si può preparare, ne parleremo diffusamente in seguito; per adesso ci basta ricordare che la Pasta cull’agghia è una specialità esclusiva del territorio trapanese, che non esistono altri pesti siciliani, e che assieme al Pesto genovese sono gli unici pesti italiani sopravvissuti. Vero è che nella gastronomia kosher si usa il mortaio, ma non esiste un pesto kosher.
Che dire della Pasta c’a sarsa?
Fino alla generazione precedente la mia, la Pasta c’a sarsa era, da giugno a settembre, la pasta quotidiana, regola fissa scolpita nella pietra, inamovibile, sacra, e soltanto la sbafata festiva o un evento eccezionale, tipo “ci hanno regalato una chilata di addri” o “nonno ha pescato una palamita, la facciamo a ragù e ci condiamo la pasta”, consentivano una deroga. Non a caso, soltanto in Sicilia, se diciamo salsa intendiamo salsa di pomodoro, nel resto del mondo ci chiederebbero che salsa. Ma si fa presto a dire Pasta c’a sarsa, perché di in Sicilia di Pasta c’a sarsa ne abbiamo una a famiglia!
Volendo semplificare distinguiamo la passata di pomodoro, quella cotta quotidiana, e quella cruda da imbottigliare, e la salsa Picchipacchi cucinata col pomodoro spezzettato aglio e o cipolla. Di solito la salsa Picchipacchi è cucinata col pomodoro fresco spellato, ma ci sono versioni antiche di questa salsa che sono cucinate senza sbucciare il pomodoro, come la sarsa chi chiova, la salsa con i chiodi, per via delle bucce del pomodoro che arrotolandosi durante la cottura sembrano chiodini rossi, o la sarsa cajorda, la salsa maleducata, volgare, perché non soltanto erano visibili bucce e semi del pomodoro, ma anche per via dell’aglio intero soffritto fin quasi all’annerimento, una salsa cafona contrapposta alla passata che invece era “pensata” elegante. Ma ci voleva più tempo per preparare una passata, mentre la cajorda si cucinava a fiamma alta, in pochissimi minuti. E col coperchio per non schizzare dappertutto. Il nome buffo di queste salse, Picchipacchi, viene proprio dal rumore del coperchio che sbatte sul tegame durante la cottura.
E non esistono Pasta c’a sarsa o Pasta cull’agghia o qualunque altra pasta trapanese che non abbiano l’accumpagnamentu. L’accumpagnamento era una caratteristica unica, ormai quasi del tutto persa del mangiare alla trapanese. Di solito erano delle verdure fritte, per una pasta con l’aglio ad esempio o per una pasta c’a sarsa, ma a comporre l’accumpagnamento erano anche vere pietanze elaborate, come brocculi affucati, finocchi stufati, peperonate, parmigiane, salsiccia fritta, ecc… facendo di un piatto di pasta un intero pranzo.
La semplicità è in ogni caso la costante della cucina trapanese, anche quando si prepara il pesce quotidiano, più spesso fritto che elaborato in ricette complesse. La conformazione stessa della città, assolutamente chiusa da alte mura che racchiudevano manifatture, stabilimenti, senie (orti) e giardini e pozzi, ed aperta soltanto al mare, ha generato una gastronomia molto condizionata dal mare, dalla pesca, dagli scambi con terre e culture gastronomiche anche molto lontane come quella genovese, spagnola o norvegese, e dal bisogno di conservare il pescato eccedente.
L’unica somiglianza che possiamo trovare tra la cucina trapanese, che da sempre naviga a vista tra mare e terra, ed una cucina prettamente di terra è nell’uso rispettivamente del tonno e del maiale. Non tanto, come è banalmente ripetuto dai più, perché dell’uno o dell’altro non si butta nulla, già che nella cucina popolare non si butta mai nulla, quanto per il breve periodo di disponibilità del prodotto fresco che obbliga a “curare” con sale, salamoie e varie spezie e conservare le eccedenze. Così come il maiale si alleva una volta l’anno ma dura per mesi sotto forma di insaccato, il tonno veniva, e viene pescato, per un brevissimo periodo ma diventava riserva di cibo per tutto l’anno.
Fin dalla preistoria le popolazioni rivierasche che vivevano di pesca hanno “capito” la capacità di conservazione della salatura e dell’essiccazione del pesce. Questo ha dato fin dalla antichità tanta importanza e valore al sale, non tanto la capacità di dare sapidità al cibo che è stata consequenziale. Tanto importante è stato il sale da essere diventato sinonimo di stipendio, infatti il salarium era lo stipendio dei soldati romani. Avendo le saline a portata di mano, gli stabilimenti dentro le mura, le tonnare sulla soglia di casa, è stato consequenziale che i trapanesi eccellessero nella salatura di tutte le parti del tonno che non erano consumate e, o vendute a poche ore dalla mattanza.
Quando si dice che del tonno usiamo tutto, come nel maiale, in realtà si esagera perché c’è qualcosa del tonno che non si consuma ed è il sangue. Non esiste il sanguinaccio di tonno. Non può esistere, perché i tonni mattanzati arrivavano al consumo dissanguati dagli arpioni con cui venivano issati sui vascelli della tonnara, e tutti prima di cucinare del tonno lo lasciavano per qualche ora in acqua satura di sale per dissanguarlo ulteriormente. Perché il sangue del tonno, di tutti i tonni diventa tossico poche ore dopo la morte del pesce. Anche oggi, che non ci sono più tonnare attive e sono pescati con le tonnare volanti, o all’amo alla traina, i tonni sono comunque arpionati per essere issati a bordo ed in qualche modo dissanguati.
Escluso il sangue, ed il fegato da cui si estraeva l’olio, del tonno rosso si salava innanzitutto la carne, ‘a Tunnina salata: il tonno, ridotto in piccoli tranci e strofinato con sale grosso, veniva stipato nella tina, un piccolo mastello di legno con un peso sopra ed era lasciato sotto pressa per un a ventina di giorni, favorendo così la fuoriuscita dei liquidi di scarto, perlopiù sangue. A questo punto veniva nuovamente salato, e “caricato” di nuovo, cioè pressato nella tina per almeno 40 giorni con pesi da 30–40 kg e finalmente, passati questi giorni era pronta per l’uso.
Si salavano tutte le interiora: ‘u vuriddruzzu e ‘a ventri, il budello e lo stomaco, erano tagliati a pezzetti e spurgati in acqua dolce per giorni e giorni, cambiando l’acqua ogni sera, e poi sbollentati a lungo, sia per renderli morbidi che per eliminare parte dell’aroma molto forte, poi ‘u vuriddruzzu veniva arrostito e condito ad insalata con patate lesse, sedano, aglio pestato, aceto ed olio di frantoio, mentre ‘a ventri dopo la sbollentata era stufata nella passata di pomodoro con patate, ed a volte associata anche alle lumache bianche di vigna, i babbaluci bianchi.
Il cuore, ‘u Cori, prima tenuto in salamoia e poi essiccato sotto dei pesi, al momento di mangiarlo affettato sottile e condito con olio, aglio, limone e pepe nero, mentre le valvole cardiache, i virticchi, dopo essere state sbollentate per dissalarle si lessavano e condivano in insalata con un ammogghiu d’agghia. Un condimento composto con aglio, origano, pomodoro spellato, olio e aceto. Si salava ed essiccava sotto pressa anche il pancreas, che a lavorazione finita prendeva la forma di un polmone schiacciato, per questo è chiamato purmuneddru, polmoncino, facendo cadere in errore notissimi gastronomi che da decenni scoprono, venendo a Trapani, che i tonni hanno i polmoni! Dopo lunga bollitura, sia per dissalarlo che per ammorbidirlo, ‘u purmuneddru veniva soffritto.
E si salavano le preziose sacche con le uova, l’ovu di tunnu e con lo sperma ‘u lattume. Preziose perché non tutti gli stabilimenti di tonnara potevano lavorare uova e lattume, ma soltanto quelli così detti “di andata” quando i tonni e le tonne non si erano ancora accoppiati, tutte le tonnare “di ritorno”, cioè quelle che pescavano i tonni dopo la riproduzione, non avevano ovviamente la materia prima.
La lavorazione delle uova di tonno, ma a livello casalingo venivano salate le uova di qualunque grosso pesce, dal pescespada alle cernie, dalle ricciole ai dentici, alle palamìte, alle spigole alle orate, era una attività altamente specializzata eseguibile solo a mano ed eseguita esclusivamente dalle donne, di solito le mogli dei tonnaroti: le lavoratrici rimanevano sedute fino a 12 ore con le grandi sacche di uova sospese davanti, lavorandole delicatamente con le dita al fine da romperne i vasi sanguigni che le attraversano come una ragnatela. Se non viene eliminato tutto il sangue le uova marciranno. Solo apparentemente un lavoro “facile” e poco faticoso, in realtà dopo poche ore le braccia cominciavano a fare male ed in capo a pochi giorni le mani si coprivano di piaghe causate dal continuo sfregamento dei polpastrelli sulle superfici umide e salate. E siccome con le dita piagate non era possibile lavorare bene le uova, le operaie si davano i turni, alternandosi alle altre mansioni dello stabilimento. Anche le uova, dopo la lavorazione a mano delle operaie, andavano in salamoia, poi pressate e poi appesi ad asciugare all’ombra.
Quando si macellava il tonno, sezionandolo nei vari tagli, venivano messe da parte le pinne dorsali con le radici, u Spineddru biancu, e quelle ventrali, u Spineddru niuru e salati anche quelli, assieme alle Tracchie, le mandibole, ed entrambe facevano la parte del sale nei ragù di pesce. Poi veniva scarnita la lunga lisca e la polpa ottenuta, molto ricca di sangue, era tritata ed impastata con pepe nero e sale, quindi insaccata in budello equino, messa in salamoia ed infine sotto pressa ed essiccata. Era la Ficazza, un insaccato povero, soprattutto se paragonato al prezioso Ovu ri tunnu, ma ancora non abbastanza povero da essere alla portata di tutti i trapanesi, anche degli ultimi, per gli ultimi c’era la Carrubbeddra: finita la giornata di lavoro, tutto quello che era finito sotto le bancate su cui avevano lavorato gli operai di tonnara, veniva raccolto, tritato, impastato con pepe nero, messo in salamoia e poi pressato come la ficazza.
Nel passato trapanese si conservava sotto sale praticamente ogni tipo di pesce pescato in grandi quantità ma per brevissimi periodi, da quelli più piccoli e saporiti, le minnole, i piccoli sgombri, sauri, ecc… genericamente chiamati pisci sicchi, ai cefalopodi, soprattutto polpi, ma anche seppie e calamari. Ed era bello vedere e sentire l’aroma di quei pescetti stesi al sole come panni freschi di bucato: non c’erano i frigoriferi, non c’erano i surgelatori, non c’era il mercato globale. C’era la necessità di conservare cibo, in certi giorni casualmente abbondante, per i giorni di magra, per le settimane di malutempu.
La salatura non era l’unico sistema di conservazione del pescato, a volte i filetti dei tonni rossi, ma anche delle altre varietà di tonno e magari anche dei delfini, le fere, erano essiccati al vento salmastro delle nostre coste per farne u murseddru, la versione trapanese del mosciame ligure.
Insieme col cibo si conservava un sapore e soprattutto un modo di cucinare. Chi ha avuto la fortuna di conoscere il sapore del Purpu siccu a stufatu chi patati, o perché ha più di cinquanta anni, o per averlo conosciuto nell’Africa a noi più vicina, capisce di cosa stiamo parlando. Un sapore, un modo di cucinare che non c’è più, non si possono raccontare, si può solo averne nostalgia. E quando un sapore non c’è più, non c’è più un pezzo di cultura. Con cosa la potremmo sostituire la cultura gastronomica di un popolo, col surgelato?
Sicuramente, la prima cosa che fecero gli arabo-berberi quando sbarcarono in Sicilia, fu accendere un fuoco e preparare un Couscous. Non certo il Cuscusu che tutti noi trapanesi conosciamo e probabilmente nemmeno il Couscous che oggi potremmo mangiare nel Maghreb.
Anche il Couscous, come tutti i piatti tradizionali, si è modificato nel tempo, e continuerà a modificarsi. Questa constatazione ci dà l’occasione per una prima riflessione sulla cucina tradizionale, da molti intesa come un qualcosa fermo nel tempo, cristallizzato, come potrebbe essere la foto di Marilyn o un reperto archeologico.
Niente di più sbagliato.
Abbiamo già analizzato come, ed anche perché, molto raramente abbiano notizie storiche certe dell’origine di un piatto della gastronomia tradizionale, e del suo autore o autrice. Più spesso quello che a noi è arrivato è la memoria della cucina tradizionale della nostra famiglia, quindi piatti caratterizzati dalle nostre condizioni economiche e non è affatto esagerato dire che esistono tante versioni della Pasta chi sardi quante sono le famiglie siciliane, oppure apprendiamo di ricette e/o di modi di approcciarsi al cibo indirettamente, scovandole tra le righe di romanzi storici, un esempio per tutti è il Timballo raccontato da Tommasi di Lampedusa, o ancora più raramente abbiamo accesso a menù di qualche festa trascritti su diari familiari o riportati da cronisti d’epoca, ma anche in questo caso quasi sempre si tratta di menù familiari, quindi condizionati dalle condizioni economiche di chi scriveva.
Confrontando ad esempio due ricette trapanesi di polpette di carne datate entrambe intorno agli anni ’60 del secolo scorso, una della borghesia urbana con accesso alle materie prime soltanto dai fornitori urbani, l’altra della borghesia contadina trapiantata in città e quindi con accesso diretto anche alle materie prime della campagna ed alla cultura contadina, scopriremmo due ricette completamente diverse. Più uova, più pane e meno carne di vitello, spesso tagliata o sostituita del tutto con carne di maiale o agnello nelle polpette contadine, meno uova, meno pane, più carne di vitello nelle polpette urbane.
In ogni caso le ricette tradizioni nascono e nel tempo, per mille motivi, si modificano. Basti pensare all’abbondanza di grassi animali e vegetali che usavano le nostre madri, o allo zucchero che le nostre nonne spargevano a piene mani sulla superficie dei timballi.
A questa modifica delle abitudini alimentari siciliane, legate a parametri salutistici o estetici, le miss degli anni ’50 oggi sarebbero considerate sovrappeso, modifiche delle abitudini alimentari che nel tempo hanno modernizzato la cucina tradizionale siciliana, dobbiamo aggiungere un aspetto del nostro carattere che forse non ci nobilita come popolo, ma che ci ha fatto ereditare giacimenti culturali che tutto il mondo ci invidia.
Un famoso detto siciliano recita: calati juncu chi passa la china, piegati giunco che passa la piena. Così puoi rialzarti. E questo abbiamo fatto noi siciliani per millenni, ci siamo piegati all’arrivo di ogni popolo straniero, diventando di volta in volta elimi, punici, greci, romani, bizantini, arabi, normanni, francesi, spagnoli, catalani, e magari anche piemontesi e “americani”, senza mai sconfessare fino in fondo quello che eravamo prima, ma senza mai dimenticare di essere siciliani.
Ed alla fine, quello che è veramente successo è che questi popoli vivendo in Sicilia sono diventati siciliani: da Romano a Sances, da Greco a Catalano, a Alì, i cognomi siciliani testimoniano il radicamento nei secoli di queste “sicilianizzazioni”. Ben 14 popoli, qualcuno dice 15 includendo i piemontesi, hanno occupato la Sicilia e da ognuno di questi abbiamo appreso e preso qualcosa senza mai dimenticare il passato. E sovrapponendo, sovrapponendo è arrivata fino a noi una gastronomia che non ha pari per varietà.
Pensate a quanto è durata la presenza degli arabi in Sicilia ed in Spagna: in Sicilia iniziò con lo sbarco a Mazara del Vallo nell’827 e terminò con la caduta di Noto nel 1091, durando 264 anni. Soltanto formalmente però, perché in realtà l’autorità politica era già passata nelle mani dei normanni nel 1072 con la conquista di Palermo.
In Spagna la colonizzazione arabo-berbera iniziò nel 711 con la battaglia del Rio Barbate e terminò formalmente nel 1492 con la conquista di Granada, durando quasi otto secoli.
Cosa è rimasto in Spagna della cultura araba? Fino a pochi decenni fa niente o quasi. Perché la riconquista cattolica significò la cancellazione totale della cultura araba. Certo, da qualche decennio anche la Spagna ha riscoperto il proprio passato arabo-berbero, ma pensate che nel 1982, quando per la prima volta visitai Granada, nei giardini dell’Alhambra dove oggi fanno la fila milioni di visitatori l’anno, pascolavano le pecore.
In Sicilia, sembra che gli arabi non siano mai andati via: l’architettura, la musica, i nomi di tantissime città, località e la loro toponomastica, da Gibellina a Salemi, da Makari a Kiggiare, da Marsala a Trapani, e soprattutto la nostra gastronomia ci ricordano che siamo stati arabi: a Natale mangiamo le sfince, la domenica le nonne fanno il timballo, sulle bancarelle compriamo cubbaita e caccavetta, ed a Trapani cuciniamo il cuscusu. Che non è un cous cous, ma che ne è erede.
Quindi la cucina siciliana è così “speciale” perché si è modificata nei secoli, si è arricchita senza mai disconoscere il passato ed è un bene che questo processo non si sia fermato.
Niente di scandaloso quindi nel rivisitate i piatti della tradizione o nell’inventarne di nuovi, purché rimangano inalterati le emozioni, le sensazioni, le magie della cucina siciliana: rivisitiamo pure le icone della nostra gastronomia come la pasta cull’agghia, o le cassateddri a broru, ma i würstel come accompagnamento o gli spinaci nelle cassateddri no!
Casomai rivisitiamo alla trapanese dei banali ravioli di ricotta e spinaci sostituendo quest’ultimi con una nostra verdura selvatica, tipo qualeddru o sinapa, o trapanesiziamo gli hot dog sostituendo i würstel con le nostre salsicce, e magari azzardiamo una carbonara alla trapanese sostituendo il guanciale con un murseddru di tonno rosso.
Fino ad una trentina di anni fa, quando i gastronomi comparavano il couscous maghrebino ed il cuscusu trapanese, tutti, trapanesi compresi, sentenziavano che si differenziavano perché uno era di carne, quello maghrebino, l’altro, quello trapanese di pesce. Probabilmente non erano mai venuti a Trapani e conoscevano il couscous maghrebino dai racconti francesi. In realtà nel Maghreb si cucinano un’infinità di couscous di pesce, ed i trapanesi cucinano cuscusu di verdure e carne.
La differenza vera fra i due piatti, sta nel modo di cottura della semola, nella presentazione del piatto e nel modo di consumarlo, mentre rimane invariata solo l’incocciata e la cottura a vapore. Anche le zuppe che li condiscono sono diverse: molto più profumate di aromi e spezie quelle arabe, più esaltati gli aromi del pesce o della carne quelli trapanesi.
E poi non ci sono fra i cuscusu trapanesi zuppe di pesce con verdure o legumi. Due piatti diversissimi dunque, ma con una origine comune.