Il racconto del cibo siciliano, e non solo

Angelo Benivegna
20 min readApr 1, 2019

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sesto quadro

Dove si narra del tampasiare, del pomodoro e della sarsa, del cappon magro, del cappon in galera e della caponata, della buffetteria e della cacciata degli ebrei; dei Vicerè e degli inglesi; delle Paoline, del Marsala e della muddrica atturrata; ovvero nasce u pani c’a meusa

L’influenza spagnola durò tanto, quasi ininterrottamente da quando, nel 1282, Pietro III d’Aragona sbarcò a Trapani invitato dai siciliani ad unirsi alla mattanza dei Vespri e dare una mano a cacciare i D’Angiò, fino al 1860 quando l’ultimo dei Borbone, Francesco II, lasciò Napoli incalzato dall’esercito di Garibaldi ed iniziò di fatto l’Unità d’Italia.

Quasi sei secoli, e non furono secoli di pace e prosperità, vuoi per calamità naturali, che un terremoto di quelli giusti in Sicilia non ce lo neghiamo mai, o per le epidemie devastanti di peste, colera e vaiolo, vuoi per le tante guerre europee che coinvolgendo la Spagna di fatto coinvolgevano anche la Sicilia, ma soprattutto per lo “spagnolismo” della classe dominante e di quella che oggi chiameremmo di “sottogoverno”, vera pletora di strascinafacenni, parassitiche che vivevano in un mondo “separato”, dove il lavoro non era previsto ma i vitalizi si, pronti a vendere la propria madre per un briciolo di interesse personale.

Quasi sei secoli, in cui la Sicilia fu prima Aragonese-Catalana, poi Aragonese Castigliana, poi Borbonica-Spagnola ed infine Borbonica Napoletana.

Furono secoli di lutti e di disgrazie per il popolo siciliano, secoli di potere, pacchianeria, arroganza e sperpero per le classi dominanti. Ma fu anche il Rinascimento siciliano, nella vita artistico culturale, come nella gastronomia. Le cucine dei nobili sono sempre più ricche e fastose. I pranzi, anche quelli non ufficiali, sono un tripudio di portate e di lusso. Ci rimangono di quel periodo cronache e ricettari stupefacenti, pranzi con decine e decine di portate, che al più i commensali potevano assaggiare, ma che nella maggior parte finivano per alimentare sguatteri di cucina e i cagnolini di famiglia. Figuratevi che in un ricettario rinvenuto a Marsala da un gruppo di appassionati golosi, troviamo in apertura una tisana di semi di canapa (cannabis) per aprire l’appetito.

Alla faccia dei contemporanei proibizionisti!

La prima rivoluzione gastronomica nella Sicilia spagnola la fecero i nuovi alimenti che via via arrivavano in Europa, dal mais al cioccolato, dai fagioli ai peperoni, il peperoncino e soprattutto il pomodoro importati dalle Americhe. Anche se inizialmente, fino alla metà del XVII secolo, il pomodoro è considerato pianta ornamentale, forse anche velenosa, in seguito diventa quasi simbolo della gastronomia siciliana, come ingrediente primario della salsa per antonomasia. Solo in Sicilia e Tunisia, quando si dice Sarsa si intende parlare esclusivamente della sola salsa di pomodoro, mentre nella gastronomia internazionale di salse ne troviamo centinaia.

Non alla presenza spagnola dobbiamo invece l’introduzione delle melanzane, già conosciute dagli arabi che l’importarono dal medio oriente e che troviamo finemente rappresentate in dipinti e mosaici antecedenti all’anno mille.

Non all’influenza della cultura spagnola dobbiamo la famosissima Caponata, che ovviamente nulla ha a che vedere con la lampuga, il pesce che in Sicilia chiamiamo capuni. L’equivoco, sull’origine di questo piatto diffusissimo in tutta la Sicilia, nasce dal fatto che la Caponata, nella versione “moderna”, venne elaborata nella prima metà dell’800 dai cuochi napoletani di scuola francese, i Monsù, venuti a lavorare nelle cucine nobili siciliane. Ma i Monsù elaborarono un piatto che già era conosciuto nelle città costiere del Regno delle due Sicilie.

Una delle ipotesi sull’origine di questo piatto, diffusissimo in tutta la Sicilia ci porta a Genova, dove fin dal tardo medio evo, era uso cucinare il Cappon di Magro, un piatto nato nei conventi e poi diventato piatto tipico di nobiltà e borghesia. Il Cappon di magro era un piatto penitenziale, inventato da frati e suore cuciniere per i giorni in cui non si poteva mangiare nessun grasso animale, carne, latte e formaggi. Ma non dobbiamo pensare a “penitenziale” come a privazione del lusso, perché frati e suore prendevano alla lettera la regola, niente carne, burro e formaggi, ma si a pesci di ogni specie, crostacei, gamberi, aragoste, ostriche, bottarga, ecc… Praticamente una insalata dove si alternavano strati di pesce e verdure lesse di ogni genere, irrorato di salsa verde agrodolce di canditi ed aceto, e guarnito con spiedini di frutti di mare e crostacei: una piramide alta una ventina di centimetri poggiata su un biscotto al sesamo.

Essendo i genovesi grandi viaggiatori, il Cappon di magro si imbarcò diventando il Cappon de galera, nel senso di nave. In mare però non si poteva avere la stessa disponibilità di verdure come in terraferma, quindi il piatto s’impoverisce di verdure, rimangono soltanto le cipolle e l’aglio, e si arricchisce di pesce conservato sotto sale: tonno, mosciame di delfino, uova salate di vari pesci, oltre al pesce fresco, ai crostacei, ai frutti di mare, alla salsa agrodolce, ed al solito pane biscottato.

Anche la bassa forza imbarcata su quelle galee, quasi tutta di lingua spagnola e siciliana, mangiavano un pane biscottato, una galletta che chiamavano cappon. Una galletta dura, ma così dura che battezzarono cappon le grosse catene di ferro che tenevano ferme le ancore quando erano issate sul ponte. I marinai bagnavano queste gallette in acqua di mare, le facevano ammorbidire per qualche ora, poi le strizzavano e le condivano con una mistura di olive, castagne cipolle, olio e aceto pestati, su cui stendevano una fetta di mosciame. Una specie di panzanella o di mingas. La chiamavano Capponada.

Viaggiando viaggiando il Cappon de Galera e la Capponada arrivarono nei porti di Campania e Sicilia diventando patrimonio sia dei nobili che del popolo. Nel Cappon “nobile” ci misero le mani i Monsù, che facendo propria l’arte della frittura crearono un piatto ancora più trionfale, una mezza sfera pesce e verdure racchiusa in una morbida cupola di salsa bernard -mollica bianca ammollata nell’aceto, aglio, basilico, aneto miele e cioccolato amaro- su cui erano infissi spiedini di ostriche e gamberi a scandire le decorazioni fatte di bottarga e dischi di uova centenarie. Le massaie siciliane e napoletane ridussero il pesce, per poi eliminarlo del tutto, ma almeno all’inizio non eliminarono il pane, riciclando quello raffermo -ne rimane traccia nel Pani a capunata pantesco- creando una specie di Capponada che sempre più si avvicina alla caponata che tutti oggi conoscete: melanzane, cipolle, sedano, olive, capperi, aceto, miele. Quando il pomodoro divenne di uso comune la Caponata assunse una tonalità ramata dovuta al pomodoro o all’astratto, il concentrato siciliano di pomodoro, e quando anche lo zucchero divenne di uso comune, fu sostituito anche il miele.

Non tutte le moderne caponate sono di melanzane, quindi per non fare confusione si usa convenzionalmente il termine Caponata quando nella ricetta entrano solo di melanzane, Caponatina quando alle melanzane sono associate altre verdure, o quando le melanzane sono totalmente assenti. Avete presente una caponata di carciofi e Ovu di tunnu? O la Caponatina di melanzane e patate della campagna trapanese, oppure una Caponatina di zucchine, ma zucchine secche, che ho assaggiato in campagna vicino Collesano, sulle Madonie. La cucinò la stessa signora che seccava le zucchine. Come seccava i funghi, le melanzane ed i peperoni che coltivava nell’orto dietro casa. Una mezz’orata prima di cucinare spruzzò d’acqua le fette di zucchina, non tanta, e quando le zucchine “rinvennero”, le frisse.

Una attenzione particolare merita, all’interno della cucina penitenziale siciliana, la cucina alla “Paolina”, che prende nome dal convento Di San Francesco di Paola. Cucina penitenziale vera, fatta di pochi ingredienti, ovviamente stagionali, cucina che escludeva totalmente ogni proteina animale, niente carne ma nemmeno uova, latte, formaggi, strutto e burro.

In alcuni conventi la regola penitenziale era presa alla lettera e nell’alimentazione dei frati, oltre le verdure crude, lesse, in salamoia o inpolpettate, e la frutta fresca o secca, entravano soltanto il pane e la pasta, il pesce povero, sarde e acciughe, le spezie. In altri conventi la regola diventava rigida soltanto in Quaresima, negli altri giorni niente carne ma si a frutti di mare, pesci che oggi considereremmo pregiati e crostacei.

Quello che caratterizzava di più la cucina alla Paolina erano le spezie, sempre presenti e sempre abbondanti, soprattutto cannella, chiodi di garofano, noce moscata, zafferano e semi di finocchietto selvatico.

Un esempio di salsa per una “pasta alla Palina” poteva essere un soffritto di cipolle, sempre bianche e sempre abbondanti, dove sciogliere alcune sarde salate, con questo soffritto, allungato con qualche cucchiaio di acqua della pasta e profumato di cannella e chiodi di garofano erano conditi i maccarruna, i maccheroni fatti a mano nei conventi poveri o con l’arbitrio in quelli ricchi. A tempo giusto le sarde salate potevano essere sostituite con quelle fresche, o magari potevano essere usate tutte e due e la salsa poteva essere profumata di semi di finocchio.

Poche le verdure usate dalle paoline, fino al XVII secolo praticamente solo brassiche, cioè cavoli e cavolfiori, ceci, fave e cicerchie, oltre ovviamente alle verdure selvatiche. Cucinando una salsa alla palina con le verdure le suore usavano le sarde salate o fresche, ma anche no, forse dipendeva soltanto da quello che avevano in cucina o dal frutto delle donazioni: sempre un soffritto di cipolle bianche, abbondanti, ricordate che fino a sessanta, settanta anni fa le cipolle erano un alimento non un condimento, rare volte aglio, in cui sciogliere qualche sarda o acciughe fresche o salate e dove poi finire di cuocere cicorie o magari broccoletti, a Palermo sparaceddri precedentemente sbollentati. In ogni caso alla fine sono da aggiungere le solite spezie, cannella, chiodi di garofano, semi di finocchio, ecc…

Poi anche nelle cucine del convento di San Francesco di Paola arrivò lamerica, sotto forma di nuovo cibo, soprattutto pomodoro ma anche ortaggi e legumi, ed il pomodoro entrò nella più semplice delle paline tirandosi dietro anche l’aglio: cipolla affettata sottilissima ed aglio, magari pestato, nel soffritto dove poi sciogliere le sarde salate ed una cucchiaiata di “astratto”, il concentrato di pomodoro. Mestolo d’acqua e portare a cottura con l’aggiunta delle spezie.

Pronta? Pronta no, perché senza muddrica atturrata non è Palina.

La “muddrica atturrata” è in Sicilia uno dei sostituti del formaggio nel condimento delle paste. L’altro è la “l’agghia e muddrica”, mollica fresca di pane raffermo sbriciolata a mano e condita con aglio pestato, prezzemolo tritato, pepe nero ed olio extravergine d’oliva, usata soprattutto sui ragù di pesce azzurro.

La muddrica atturrata è di facile preparazione, ma non sottovalutatela amici miei: ci vuole un niente per mandarla in malora e vi toccherebbe ricominciare da capo. L’ingrediente principale della muddrica atturrata non è il pane, ma la pazienza, quindi armatevi di santa pazienza e andiamo a cominciare. Mettete la quantità di pangrattato che volete preparare in una padella antiaderente, meglio ancora in una padella di ferro, accendete il gas al minimo e comincite a mescolare lentamente con una lecca di legno senza mai fermarvi. Il processo di “atturratura” (atturramento?) deve essere lento e costate, per questo devete mescolare di continuo. Quando il pangrattato avrà raggiunto una bella colorazione dorata spegnete il gas ed aggiungete un filo d’olio extravergine d’oliva. Fatelo assorbire, vedrete che la vostra muddrica atturrata diventerà più scura, e sarà pronta. Io faccio anche una altra muddrica atturrata, che uso sulle paste vegetariane senza sarde salate, miscelando a freddo caciocavallo grattugiato ed aglio pestato al pangrattato, e poi vado di paletta e gas al minimo come nell’altra ricetta.

E adesso arriviamo al dunque: c’entra qualcosa la Pasta alla palina, con la palermitanissima Pasta chi vruocculi arriminati?

Tutto, ma anche no.

Potevamo farci la stessa domanda pensando alla Pasta du malutempu, aglio, acciughe, broccoletti, olive nere, pinoli e muddrica atturrata, alla Pasta alla Melanisa, alla Pasta chi sardi o alla palermitanissima Pasta c’anciuova e muddrica, e la risposta sarebbe stata la stessa: la quasi totalità della cucina tradizionale siciliana è nata nei conventi e nei palazzi nobiliari, tutto il resto nasce in strada e si consuma in strada: stigghiola, quarume, meusa, panelle, rascatura, frittula… Quando può, il popolo rielabora, e come dal Cappon Magro si arrivò alla Caponata, dall’Aggrassato si arrivò alla Pasta c’a grassa, dalla cucina alla Palina si arriva alla Pasta chi vruocculi arriminati: non ci sono più le spezie, costosissime per il popolo, ma entrano l’uva passa ed i pinoli accessibili a tutti.

Una evidente origine spagnola ha sicuramente il termine ‘Mpanate, con cui si indicano tutta una serie di focacce a forma di mezzaluna cucinate in molte città del sud est siciliano da Ragusa, a Niscemi, da Scicli a Siracusa. Alcune sono tipiche del periodo natalizio, altre di quello pasquale, e sono ripiene di carne, verdure, funghi, formaggi. Del tutto simili alle Impanadas spagnole.

Fanno storia a se gli ‘Mpanatigghi modicani, come un piccolo panzerotto a forma di mezzaluna, e ripieno di un composto di mandorle, noci, cioccolato amaro, zucchero, cannella, chiodi di garofano e carne di manzo, uguali identici alle Empanadillas spagnole nella forma, ma non nella sostanza, perché le Empanadillas spagnole sono ripiene di carne, verdure, formaggi, tonno, nunnata, o morcillas -una salsiccia di sanguinaccio, carne di maiale, riso e cipolle- ma mai associati al cioccolato. Il cioccolato, assieme a banane, cocco e altra frutta fresca e secca lo troviamo nelle Empanadillas dolci.

Probabilmente non troviamo riscontro in Spagna degli ‘Mpanatigghi modicani al cioccolato perché sono un’invenzione tutta siciliana, o per meglio dire una fuscion tra la cucina francese e quella spagnola: avete presente il Dolceforte?

Molto diffuso nelle zone di Siena e Firenze, il Dolceforte, del quale si hanno tracce nei ricettari del ‘500, era da considerarsi più che una ricetta una salsa d’accompagnamento, unita a metà cottura a selvaggina come lepri e cinghiali stufati. Per noi siciliani è l’inizio dell’agrodolce e dei salsiti come la cipuddrata o l’agghiata, salse agrogolce di aglio o cipolla per accompagnare il pesce. Il Dolceforte inizialmente era preparato con panforte e Cavallucci tritati, i tipici biscotti senesi con buccia d’arancia candita e cannella, miele, uvetta sultanina, pinoli e noci pestati, il tutto innaffiato con aceto e fatto cuocere, prima di essere unito alla carne. L’aggiunta del cioccolato arrivò più tardi, con la scoperta delle Americhe. Dell’uso del cioccolato in cucina è rimasta traccia, oltre che negli ‘Mpanatigghi modicani, in un altro piatto, gli Sciabbò di Castrogiovanni, l’odierna Enna, un Ragù di carne di maiale e cioccolato con cui condire gli sciabbò, una specie di lasagnetta riccia ad imitazione degli jabot, il farpalo che anticipava le cravatte al collo degli uomini del ‘700.

Anche il Dolceforte, come il pomodoro, la cioccolata o i rosoli ci arrivarono di rimbalzo dalla Francia dove li aveva “esportati” e valorizzati Caterina de Medici, diventata regina di Francia.

All’epoca dei Vicerè spagnoli, come al solito, il popolo doveva arrangiarsi e facendo di necessità virtù, sopperisce con la fantasia alla povertà di contenuti.

Dentro il filone dell’arrangiarsi quotidiano troviamo sia U caciu all’argintiera, caciocavallo fresco saltato in padella con aglio tritato, origano e aceto, tanto profumato e appetitoso da far dimenticare che è solo formaggio e… fantasia, che il famosissimo Pani ca meusa. In verità quest’ultimo andrebbe chiamato semplicemente vasteddra, ma le vere vasteddre sono ormai così rare da trovare che anche i palermitani Doc hanno dovuto adattarsi e accontentarsi di volgari panini conditi con milza.

La vasteddra era un’altra cosa.

L’origine della vasteddra c’a meusa ci fa risalire alla fine del Medioevo quando, nella Palermo spagnola, la comunità ebraica viveva all’interno di un proprio ghetto, ed aveva l’esclusività dell’arte della macellazione esercitata nel macello cittadino delle carni che allora era ubicato, e lì rimase sino al 1837, nella parte più bassa del Seralcadio, odierno quartiere Capo. I macellai ebraici però non potevano essere ricompensati in denaro, poiché la loro religione vieta ricompensi in denaro per qualunque attività preveda spargimento di sangue. In cambio del lavoro di macellazione ricevevano quindi, a titolo di regalia, le interiora dell’animale, escluso il fegato che era ritenuto molto pregiato. Per ricavarne del denaro dal loro lavoro gli ebrei palermitani inventarono una nuova pietanza, ed andarono ad infoltire le schiere di buffettieri venditori di cibo che affollavano le strade palermitane: dopo aver bollito, quindi sterilizzato, tutte le frattaglie trippe comprese, le vendevano servendole su una larga foglia ai “gentili”, i cristiani, che le mangiavano per strada e con le mani, secondo una usanza trasmessa dai musulmani che mangiavano cibi senza l’uso di posate, riservando l’uso del coltello solo per il taglio e la frammentazione del cibo.

All’epoca era diffusa anche un’altra figura di buffittiere: il cacciuttaro, il venditore di cacciotto. Il cacciotto era un panino simile nell’impasto e nella forma ad un piccolo cabbucio, o se volete ad una muffuletta ovale. Una volta aperto il cacciotto veniva leggermente sponsato, imbevuto, con lo strutto e farcito di caciocavallo piallato poi, dopo averlo “sigillato” tutto attorno con lo strutto, il cacciotto veniva infornato una seconda volta, così che diventasse croccante all’esterno e morbido all’interno per la fusione di strutto e formaggio.

A seguito dell’editto emanato nel 1492 dal Re Ferdinando II d’Aragona “il cattolico”, ed alla conseguente espulsione degli ebrei dall’Isola ed all’esproprio di tutti i loro beni, furono messe in vendita a prezzi da liquidazione tutte le attività commerciali da loro praticate, quindi anche la vendita di frattaglie bollite. Fu allora che alcuni caciuttari ebbero l’idea di aggiungere milza, polmone e trachea alla farcia del cacciotto, inventando u pani c’a meusa, altri buffittieri, magari quelli che avevano comprato le quarare, i grandi pentoloni di rame dove gli ebrei lessavano le frattaglie, aggiunsero qualche verdura alle frattaglie rimaste, le trippe, ed inventarono, dal nome delle quarare dove le frattaglie bollivano, la quarume.

Dalla cancellazione di una figura professionale, il macellaio ebraico, nacquero due nuove professioni, il meusaro ed il quarumaro, e per più di tre secoli queste figure professionali, come tutte le attività di buffetteria, rimasero legate strettamente alla strada, fino a quando nel 1834 un giovane palermitano, Antonino Alaimo, figlio di Monsù e Monsù lui stesso ebbe un’idea: avuti in uso i locali che avevano ospitato la cappella di palazzo San Francesco, a due passi dal Cassaro, l’odierno corso Vittorio Emanuele, vi cominciò a produrre e vendere sfincione, cacciotto, vasteddre, e vino.

Forse fu l’arte appresa dal padre Salvatore, Monsù dei Principi di Cattolica, a far si che nobili, imprenditori ed intellettuali dell’epoca diventassero assidui frequentatori del locale di Antonino Alaimo, ‘ntisu Ninuzzu, non certo l’estetica degli arredi o l’igiene, che in verità dovevano essere piuttosto scarsi, se spinsero Ignazio Florio a fargli una proposta: io ti finanzio il restauro del locale e ti do anche il vino (tanto lo faccio io), e tu non mi devi restituire nemmeno tutti i soldi subito, un po’ me li ridai con gli incassi, ed un po’ mi ripaghi dando a me e ai miei amici da bere e da mangiare.

Una proposta che Ninuzzo non poteva sicuramente rifiutare.

Così Florio ne parlò con un amico architetto, un tale Basile cha a Palermo si dilettava a progettare teatri, e Basile gli disegnò la grande cucina di ghisa e lucidissimo ottone, ed i tavoli anche loro di ghisa col ripiano di Perlato, che Florio fece produrre nelle sue fonderie. Poi Florio chiamò un amico pittore e gli fece fare l’insegna, poi chiamò un amico ebanista, un altro per le vetrate… e così via, via finché la Focacceria divenne quello che è adesso, cioè L’Antica Focacceria San Francesco.

La vasteddra di Ninuzzu poteva essere schietta, non sposata, se farcita di sola ricotta, oppure maritata, se farcita di milza, polmone e scannarozzato, la trachea tritata. Spremuta di limone o caciocavallo piallato a piacere. Ovvio che se dai ad un cliente la possibilità di scegliere fra due gusti il cliente ne scelga un terzo, quindi alla schietta ed alla maritata si aggiunse anche la vasteddra con milza, polmone e ricotta. Oggi, quasi più nessuno chiede la schietta, il panino con la sola ricotta, e per maritata si intende la vasteddra con milza, ricotta e caciocavallo, associando il bianco della ricotta al velo della sposa. In ogni caso milza, polmone e scannaruzzato, prima sbollentati, erano velocemente scaldati nella sugna sfrigolante. Ma quando si dice velocemente si intende proprio velocemente, non fritti, ma solo un veloce passaggio per scaldare gli ingredienti.

Si racconta che Ninuzzo di idee ne ebbe tante, per esempio si dice che sia stato lui a sostituire i cavolfiori dalla pasta alla Palina con i finocchietti selvatici, ed a proporla alla focacce ria.

Oggi sono decine i posti dove mangiare una buona vasteddra, u pani c’à meusa, sia fissi che ambulanti, ma solo all’Antica Focacceria San Francesco potete scegliere fra una schietta o una maritata. Perché? Perché nessun meusaro palermitano cucina vasteddre maritate? Perché è così fedelmente rispettata una esclusività non protetta da alcuna registrazione?

Perché a Palermo il rispetto conta.

Insieme gli spagnoli scoprimmo il mangiare per strada -andare per tapas dicono gli spagnoli da cui il siciliano tampasiare, bighellonare- o nelle taverne. Non sono ancora ristoranti o trattorie, servono solo vino, rapipitittu e chiamavino: iprimi servivano da antipasto per il pranzo o la cena che sarebbero stati consumati a casa: polpo bollito, babbaluceddri a cunigghiu, caponata, polpette di sarde in agrodolce; i secondi si consumavano fra il pranzo e la cena per potere continuare a bere; uova sode, salsiccia secca, tunnina salata, murseddru e salatume in genere.

Per strada si mangiano anche le panelle, frittelle di farina di ceci, acqua e sale, diffuse in tutto il mediterraneo sotto varie forme. In Italia sono altrettanto conosciute le Farinate liguri e la Torta livornese.

Sul finire del ‘700 con l’auto-estinzione dell’impero spagnolo e la presenza sempre più arrogante dei nuovi imperialismi, Inglese e Piemontese, tramonta l’era dei Re e dei Viceré siciliani, per far posto a quella dei Gattopardi i datori di lavoro dei Monsù.

Sul finire del ‘700 la presenza inglese in Sicilia diventa sempre più consistente e commercialmente importante. Gli Inglesi hanno scoperto il basso costo della nostra mano d’opera e delle materie prime di cui la nostra isola dispone. Primi fra tutti furono i fosfati ad attrarre l’attenzione dei commercianti d’oltre Manica, e poi lo zolfo, il sale, la pomice e per ultimo il vino. Già da tempo i marinai inglesi conoscevano i forti vini siciliani, bevuti probabilmente in qualche osteria di Marsala, Mazzara o Trapani, ma fu grazie al colpo di genio di un giovane commerciante, John Woodhouse, che il vino di Marsala divenne Il Marsala.

La tradizione ci racconta di Woodhouse fermo nel porto di Marsala per il mal tempo e in difficoltà nel reperire e caricare sul suo brigantino i fosfati che era solito commerciare con l’Inghilterra. Per non tornare in patria a mani vuote l’inglese, decide di caricare alcune botti di un vino che lo aveva particolarmente entusiasmato. Era un vino ambrato, con riflessi solari, frutto probabilmente di una vendemmia tardiva, come erano soliti fare i contadini marsalesi. Un vino forte, e ben strutturato che gli ricordava i vini spagnoli di gran moda sulle navi inglesi dell’epoca. Per non correre il rischio di rovinare il vino, a causa del maltempo che ancora imperversava, decide di conciare le botti con una generosa dose di alcool. Senza saperlo Woodhouse aveva inventato il moderno Marsala.

Vera o no che sia questa poetica nascita del Marsala, furono in ogni caso gli inglesi ad apportare le necessarie innovazioni tecnologiche, con Benjamin Ingham, che perfezionarono le tecniche di vinificazione, e a dare la prima spinta produttiva, con James Hopps, per la costruzione dei primi Bagli. Ed il Marsala divenne il vino preferito degli inglesi, fino ad essere inserito tra i vini in uso sulla flotta imperiale e nella carta dei vini della corte d’Inghilterra. Sul Marsala sono state già scritte migliaia di pagine, e da autori ben più competenti di me, ma qualcosa, da appassionato quale sono del Marsala, voglio dirla anch’io.

Non c’è un vino al mondo che può essere paragonato al Marsala.

Credetemi, questa affermazione non è frutto di esasperato etnocentrismo, ma semplice constatazione. Vi faccio un esempio: prendiamo ad esempio il Chianti o il Barolo. Questi due grandi vini, sono sempre, e comunque sempre, vini rossi. Più o meno corposi, più o meno invecchiati, ma pur sempre vini rossi. Li potrete abbinare a carni rosse, selvaggina, arrosti importanti e, nel caso di annate particolari, a formaggi mediamente stagionati. Lo stesso dicasi per Il Barbera, il Barbaresco, il Nebbiolo, Brunello o Nobile. Provate ad abbinare a questi vini la ricotta, la cioccolata, un ragù di tonno, o una zuppa di vongole. Che orrore!

Il Marsala, per il colore può essere, Ruby, Ambra o Oro. Per la gradazione alcolica e l’invecchiamento può essere Fine, Superiore o Vergine. Per il sapore può essere Secco, Demisec, Dolce. Con particolari tecniche di invecchiamento può essere Riserva o Soleras. E non è finita qui, perché ci sono poi Marsala particolari come il Garibaldi Dolce o l’I.P o l’A.C.I. ecc… sempre con lo stesso disciplinare, nello stesso territorio, con gli stessi vitigni.

Il Marsala è un vino così unico, che potremmo dire che ogni Baglio è un Marsala. Non date ascolto a chi dice che il Marsala è un vino da dessert. Il Marsala è un vino da tutto pasto. Basta sapere e potere scegliere i Marsala giusti.

Qualche anno fa in una degustazione ristrettissima, a cui ho avuto l’onore di partecipare, nelle cantine della Florio, ho visto qualificatissimi sommelier rimanere sbalorditi da un Marsala superiore del ’64 sposato ad un cioccolato fondente dopo aver assaggiato un Vergine del ’46 accompagnato da un pecorino stagionato.

Ovviamente gli inglesi, già che c’erano, fra un bicchiere e l’altro di Marsala, si occupavano di politica. Della nostra politica. Prima aiutarono i Borboni a rafforzare l’esercito, ma quando videro come si comportarono le truppe borboniche contro i francesi di Murat, sbarcato nel 1810 vicino a Messina, estesero il loro controllo su tutta l’Isola, trasformandola praticamente in un protettorato.

In fondo proteggevano i loro interessi.

Ovvio quindi che gli inglesi “entrassero” un pochino anche con l’epopea garibaldina. Qualcuno sostiene che “entrarono” più di un pochino. D’altra parte Garibaldi, il braccio, e Mazzini, la mente, erano entrambi massoni e la massoneria aveva grande importanza nella politica inglese, i soldi per la spedizione furono infatti raccolti in Inghilterra, ed in fine la flotta inglese fece praticamente da paravento allo sbarco a Marsala delle mille camicie rosse.

Caso mai ci si dovrebbe chiedere quali trame tessé allora la massoneria europea per convincere Garibaldi che gli ordini erano cambiati e che bisognava obbedire ai Savoia.

I Borboni, gli Inglesi, I Savoia… ma per i siciliani cambia poco o niente.

E’ l’epoca dei Gattopardi.

Baroni e principi siciliani vivono fuori dal mondo reale.

Non vedono e non sentono, e quando la rabbia popolare, o la peste mettono in pericolo la loro dorata esistenza, hanno sempre un feudo a Donnafugata, o a Misiliscemi, dove rifugiarsi, protetti da qualche maestranza armata, le antenate della mafia.

Nelle cucine i fuochi erano sempre accesi, gli sguatteri vi campeggiano litigando gli avanzi coi cani di casa, e i Monsù vi regnano.

La tavola dei Monsù è un trionfo di colori e sapori. I Monsù, che vengono contesi a suon di soldoni, qualche volta anche di duelli, dai baroni siciliani, sono tenuti in tale considerazione che hanno in cucina praticamente mano libera.

Reinventano il timballo, “inventato” da quel tale visir catanese Ibn al-Thimna che aprì la porta della Sicilia araba ai Normanni, e ne fanno, nella versione diffusa dal romanzo di Tommasi da Lampedusa, una “torta” di pasta brisè ripiena di maccheroni, salsiccia, ragù di vitello, salame, melanzane fritte, uova sode e primosale. Ma i timballi erano tanti, alcuni purtroppo estinti, altri ancora oggi cucinati come il Timballo di vruocculi e pruna, con maccheroni, cavolfiori, primosale, prugne secche e uova sbattute o ancora il Timballo di Petralia con maccheroni, ragù di maiale con salsiccia, pancetta e cotenne, finocchietto selvatico e ricotta. Un timballo ancora cucinato come lasagna o genericamente pasta al forno al ragù di maiale al finocchietto, popolarmente chiamata pasta cacata, in quanto arricchita, e quindi concimata, dalla ricotta.

Nasconi i Pastizzi, il più conosciuto è il Pastizzu di sostanza, sempre di Pasta brisè ma più basso dei timballi, farcito a base di gallina, uova non nate, salsa besciamella, brodo e parmigiano, una novità, una graditissima novità che i siciliani “normali” conosceranno solo un secolo dopo. I pastizzi si mangiano anche freddi, sono adatti alle scampagnate, come il a, una specie di pizza rustica farcita di ricotta addolcita, tocchetti di salame e tocchetti di caciocavallo. Il tutto ovviamente ben spruzzato di zucchero e cannella.

E si, perché i nostri antenati avevano una propensione al dolce che noi neanche immaginiamo. O per meglio dire lo possiamo immaginare pensando ai dolci della cucina baronale, primo fra tutti il Trionfo di gola, che già il nome… I Monsù inventano magari dolci speciali per le padroncine, come quei panini alla francese, quelli che oggi a Palermo chiamano appunto francesini, dedicati ad una certa Iris: svuotati, ammorbiditi nel latte, erano poi farciti di ricotta addolcita, passati nell’uovo, nel pangrattato e fritti. Quando poi ai Monsù si affiancarono i pasticceri svizzeri emigrati fra Palermo e Catania, i Caviezel, Caflisch, anche la pasticceria siciliana fece un balzo in avanti elaborando dolci nord europei come i krapfen, inventando le Graffe alla ricotta.

Di trasversale alle differenze sociali è rimasto forse solo il gelato, nato, è vero, quasi mille anni fa dalle nevi dell’Etna e dalla fantasia di qualche cuoco siculo-arabo-berbero, ma assurto a vera arte culinaria tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800.

I pasticcieri siciliani, forti dell’esperienza della Frutta di Marturana, realizzano gelati ispirandosi alla frutta così perfetti da ingannare più di un inglese in visita nel nostro paese. Ve li immaginate che faccia avranno fatto quando hanno provato ad addentare una pesca di gelato!

Con l’unità d’Italia in Sicilia cambia ben poco, se escludiamo la leva obbligatoria e qualche tassa in più. Forse dai piemontesi apprendiamo l’uso della pasta ripiena, i ravioli, ma non ci metterei la mano sul fuoco. I Gattopardi imperverseranno fin quasi ai giorni nostri e per vedere delle novità gastronomiche dovremo aspettare l’ultima invasione, quella della televisione e delle riviste di cucina.

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